Il futuro della open innovation

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  • 2021-09-09 - 5 minuti
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L’estate significa più lavoro, ma anche più tempo libero: aver dedicato gran parte del tempo a disposizione per un po’ di sano “retreat” è stato fondamentale, e tra le molte cose che sono riuscita a fare, c’è stato tempo per leggere…. per cui, partiamo da qui: ecco la recensione de “Il futuro della open innovation” di Henry Chesbrough.

Recensione

Inizio con il dire che sicuramente non è una lettura per tutti: il testo è improntato -chiaramente- sul business model adottato da molte aziende relativa alla loro esperienza nell’adottare una strategia di open innovation.

Vengono portati in esame diversi casi di studio con protagonisti anche molto conosciuti, tra cui Procter&Gamble, Intel e la Royal Bank of Scotland, dove non sempre strategie di open innovation hanno portato a risultati positivi.

Interessante infatti come l’autore analizzi cosa c’è dietro all’adozione di questo modello: l’open innovation è un processo lungo e tortuoso, che può dover affrontare ostacoli di diverso tipo, che a volte portano a situazioni fallimentari.

L’iniziativa Smart Villages portata avanti in India, per esempio, ha costituito una vera e propria rivoluzione per una porzione di paese che altrimenti avrebbe continuato a convivere in una situazione di totale povertà.

Fornendo dei sostegni allo sviluppo, come nuove competenze, prevedere progetti e programmi di aiuto a lungo termine o ancora creare comunità dove l’innovazione viene disseminata e condivisa, l’impatto ottenuto è enorme: grazie all’attenzione data alla formazione dei villaggi, questi sono arrivati a raggiungere risultati impensabili.

Nel link riportato qui ci sono moltissime informazioni su come il progetto è stato articolato e sui benefici apportati alla comunità: se pensiamo che in Occidente manovre simili sono considerate “il minimo sindacale per il raggiungimento della civiltà”, in paesi come l’India sono necessari per lo sviluppo stesso della civiltà.

L’ottavo capitolo è quello più interessante: sono riportati i casi di studi delle aziende citate precedentemente con le relative esperienze e soprattutto una sezione alla fine di ogni caso con le “lezioni apprese” da queste aziende, positive e non.

Questo esempio di struttura permette di analizzare caso per caso e vedere che non c’è una ricetta magica in cui l’open innovation porta al successo, ma piuttosto ci sono diverse strategie da attuare che fanno riferimento ad un’unica filosofia e che vanno poi adattate al contesto.

La strategia outside-in è quella che statisticamente ha avuto più successo: molte aziende infatti sviluppano delle soluzioni o portano avanti dei progetti in maniera totalmente “segreta” per evitare che queste idee fuoriescano e che qualcuno realizzi la stessa idea prima o meglio.

Alcune delle idee che questo approccio suggerisce sono infatti basate sul concetto che le conoscenze esterne sono importanti tanto quanto quelle interne: se un’azienda ha bisogno di realizzare un prodotto che magari già altri hanno realizzato, perché perdere tempo a reinventare la ruota? Vale la pena inglobare l’idea, e magari adattarla alle proprie esigenze di business.

Spesso dietro a tanta reticenza c’è il problema della proprietà intellettuale: si tratta di un lavoro importante e molto complesso, per cui questa non deve costituire un limite, ma piuttosto un incentivo (se ti interessa approfondire, dai un’occhiata al libro di Simone Aliprandi sulle licenze software!).

Se un’azienda porta avanti, grazie al suo reparto di R&S, delle idee che si rivelano positive per il business model aziendale, è possibile anche esternare queste conoscenze, senza poi perderne il “controllo”, ma anzi, crescendo anche grazie agli utilizzatori esterni.

Il riconoscimento sociale è fondamentale, ma non sufficiente, soprattutto se parliamo di un’azienda privata: “l’ho fatto io” non basta, ma bisogna anche giustificare in qualche modo gli investimenti atti al raggiungimento di una certa soluzione.

In questo senso, garantire qualche grado di protezione, come tramite un sistema di licenze, è importante per garantire un successo anche in termini di investimento economico e di tempo speso per lo sviluppo dell’idea.

Interessante, in questo senso, il caso della NASA, che ha sollecitato diversi aiuti esterni per assicurarsi di affrontare nel modo migliore la progettazione di voli spaziali con equipaggio umano: il contributo ottenuto è stato risolutivo per prevedere le eruzioni solari con l’aiuto di un algoritmo, così da evitare l’esposizione dell’equipaggio alle pericolose radiazioni solari.

Un laureato in previsioni meteorologiche risolse il problema, fornendo un algoritmo che garantiva una finestra temporale di 24 ore rispetto alle predizione: un risultato incredibile e raggiunto grazie ad un contributo esterno alla NASA.

In conclusione: questo è un saggio che molte aziende che hanno voglia e bisogno di crescere dovrebbero leggere, per apprezzare a pieno l’approccio all’open innovation e per ricordarsi e ricordare anche agli altri che non tutte le idee considerate “originali” sono idee che portano al successo, ma che, anzi, spesso hanno bisogno di uscire per poterne apprezzare le potenzialità.

Inoltre, un approccio che sia outside-in o inside-out, aiuta l’azienda a investire in pretotipi o soluzioni che, tramite tempi e costi ridotti, possono più facilmente essere utilizzati all’interno del processo aziendale.

Lezione imparata

  • L’open innovation funziona grazie alle persone;
  • Per adottare questo approccio, ci deve essere collaborazione: ci vogliono persone disposte a collaborare fianco a fianco con quelle dell’azienda che condivide con voi la conoscenza, e per farlo ci vogliono dipendenti di talento dell’azienda stessa;
  • Boundary-spanning: persone che sono in grado di accedere a fonti di conoscenza diverse e di combinarle insieme per ottenere un processo innovativo, avendo il ruolo di collegare le reti interne dell’organizzazione con fonti esterne di informazioni.

Quotes

Un requisito da soddisfare per una disseminazione e assimilazione delle nuove conoscenze è l’esistenza di un reparto di ricerca e sviluppo interno. Un’impresa può riuscire a fare proprie le conoscenze esterne quanto basta a utilizzarle solo se dispone di una certa quantità di mordente creativo e può lasciare alle persone che lavorano sulle nuove conoscenze il tempo necessario ad applicarle insieme.

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